La sentenza Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 9 settembre 2021, C-107/19
Al lavoratore dipendente spetta un riposo giornaliero di almeno undici ore consecutive ogni ventiquattro.
Qualora l’orario di lavoro giornaliero superi le sei ore il lavoratore ha diritto a una pausa, le cui modalità e durata sono stabilite dai contratti collettivi di lavoro.
Se non vi sono specifiche pattuizioni contrattuali che prevedono modalità di fruizione della pausa differenti, la normativa italiana prevede che la pausa non può essere inferiore ai dieci minuti.
La ratio di tale pausa è quella di garantire al lavoratore la possibilità di interrompere il ritmo lavorativo, così da poter consumare un pasto o adempiere ai propri bisogni fisiologici.
Tra le pause giornaliere riconosciute consuetudinariamente vi sono la pausa pranzo, la pausa caffè e, talvolta, persino la pausa per la sigaretta.
Proprio in tema di pause di lavoro si è espressa la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la sentenza 9 settembre 2021, caso C-107/19 (testo in calce) relativa al caso di un vigile del fuoco cui era stato richiesto di essere reperibile anche durante le pause, con presa di servizio entro due minuti dalla chiamata del datore di lavoro.
Il quesito sottoposto al parere della Corte è stato quello di precisare se, in base al diritto Europeo, la pausa con obbligo di reperibilità debba essere computato nell’orario di lavoro ovvero come orario di riposo. La questione assume connotati molto rilevanti specialmente ai fini previdenziali.
Preliminarmente, giova sottolineare come la locuzione “orario di lavoro” definisca qualsiasi periodo in cui il lavoratore è appunto al lavoro, a disposizione del datore, svolgendo la propria attività o le proprie funzioni.
Il “periodo di riposo” racchiude tutti i momenti non ricompresi nel su indicato “orario di lavoro”. I due periodi sono, a parere della Corte, antitetici, nel senso che uno esclude l’altro.
Secondo questa, il lavoratore in pausa con obbligo di reperibilità svolge un c.d. servizio “di guardia”, ed è pertanto a disposizione del datore del lavoro, il quale può assegnargli mansioni o funzioni da un momento all’altro.
Emblematica e fondamentale in tale senso è anche la definizione di “tempo di reazione”, inteso come la forbice temporale entro cui il lavoratore deve riprendere servizio a richiesta del datore di lavoro.
Per determinare se la pausa è qualificabile come “orario di lavoro”, andrà pertanto analizzata la fattispecie concreta, valutando, quali indici di una condotta rientrante nell’orario di lavoro:
– vincoli imposti al lavoratore: più sono stringenti detti vincoli, meno libertà ha il lavoratore;
– luogo della pausa: se il luogo è la sede di lavoro o un luogo diverso scelto dal lavoratore;
Se il lavoratore è costretto a svolgere la propria pausa sul posto di lavoro, senza possibilità di avvicinarsi al proprio ambiente sociale e familiare, con vincoli imposti dal datore di lavoro, la pausa andrà considerata come orario di lavoro.
La possibilità di uscire dal luogo di lavoro non esclude una simile qualificazione qualora vi siano dei vincoli talmente stringenti da impedire al lavoratore di dedicarsi alla propria sfera privata.
La Corte ha dunque concluso come una pausa in cui il tempo di reazione sia inferiore ai due minuti, ed in cui il lavoratore non possa pienamente disporre del proprio tempo libero, deve essere ricompresa nell’orario di lavoro. Tutte queste valutazioni, come detto, andranno determinate in base ad un’analisi del caso concreto, verificando le circostanze, i vincoli, e le modalità di fruizione della pausa.
In calce la sentenza esaminata.