Cosa è il mobbing.
La parola “mobbing” deriva dall’inglese “to mob”, verbo significante “aggredire, attaccare”. Tale termine indica una pluralità di comportamenti aggressivi e persecutori posti in essere sul luogo di lavoro. Il fine è quello di aggredire, attaccare ed escludere un lavoratore che ne è vittima.
Agli albori della sua disciplina, questo era un fenomeno più prettamente sociologico, studiato da psicologi e sociologi.
Verificandosi con insistenza anche nell’ambito di rapporti di lavoro, è dovuta intervenire la giurisprudenza per dare una definizione giuridica di mobbing, individuandolo in una serie di atti o comportamenti vessatori protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte di colleghi o da parte del suo datore di lavoro, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo.
Il mobbing può essere orizzontale e verticale (il quale potrà essere poi ascendente o discendente). Nel primo caso lo scherno o le umiliazioni vengono poste in essere da colleghi, nel secondo caso da soggetto che riveste una diversa qualifica nell’organigramma societario.
Le condotte integranti il mobbing.
Le condotte integranti il fenomeno del mobbing si estrinsecano in comportamenti illeciti e in comportamenti di per sé leciti. Difatti, la ripetizione nel tempo di comportamenti fondamentalmente leciti, quali una battuta, uno scherzo, possono andare a creare una situazione di disagio e di timore in seno alla vittima. Ad unificare tali condotte, dando loro natura complessivamente illecita, sono l’abitualità di tale condotta e l’animus del mobber, che è quello di vessare ed escludere un lavoratore.
Svariate sono pertanto le condotte che possono integrare il mobbing. Il lavoratore vittima potrebbe divenire oggetto di battute infelici, maldicenze, ingiurie o potrebbe ritrovarsi ad essere escluso all’interno dell’ambiente lavorativo;
Se il mobbing deriva invece dal datore di lavoro potrebbe estrinsecarsi in improvvisi demansionamenti, attribuzioni di mansioni squalificanti, offensive della professionalità del lavoratore. Lo stesso potrebbe anche essere invece destinatario dell’attribuzione di un carico di lavoro sproporzionato e ingestibile.
Spesso vi sono stati gravissimi episodi di violenza fisiche, come aggressioni alla sfera sessuale. Ancora si son registrati casi di minacce di perdere il lavoro se il lavoratore si fosse rifiutato di accettare proposte indecenti dal datore di lavoro.
La giurisprudenza ha conosciuto anche casi decisamente estremi di mobbing, culminati con un licenziamento senza motivo.
È doveroso sottolineare che non vi è mobbing in assenza di una lesione fisica o psichica del lavoratore vittima. Solo qualora i comportamenti riprovevoli portino ad un’alterazione della salute e della serenità psico-fisica del malcapitato lo stesso potrà agire per far accertare la condotta vietata.
Da quanto detto emerge che il mobbing è una piaga sociale molto grave. In assenza di una disciplina normativa unitaria, la Giurisprudenza ha tentato di normare la materia in via ermeneutica.
Gli elementi del mobbing.
Come chiarito anche dalla giurisprudenza (cfr. ad esempio Cass. Civ., sez. Lavoro, n. 17698/2014), sono elementi costitutivi del fenomeno del mobbing:
- Una pluralità di condotte lesive, connaturate da un’abitualità. Come predetto, le singole condotte possono essere lecite o illecite;
- La lesione della salute psichica o fisica, ovvero della dignità del dipendente;
- il nesso causale tra le condotte del mobber e il danno personale subito dalla vittima;
- l’animus dell’agente, cioè la volontarietà di vessare, escludere, perseguitare la vittima.
Mancanza della pluralità delle condotte, lo “straining”.
Come descritto, il fenomeno del mobbing necessità di una pluralità di condotte vessatorie, offensive. In assenza di tale pluralità non può pertanto rappresentarsi la fattispecie.
Tuttavia, per tutelare il soggetto vittima di limitati episodi vessatori, la Giurisprudenza ha delineato il fenomeno del cosiddetto straining.
Il termine straining deriva dall’inglese “to strain”, e può essere tradotto con la locuzione di “mettere sotto pressione”.
Il Dottor Harald Ege è il fautore di tale terminologia. Lo stesso, studioso della Psicologia del lavoro ed autore di numerosi scritti in materia, ha individuato “sette parametri” per riconoscere una situazione di straining[1]:
- La condotta deve svolgersi sul luogo di lavoro;
- Le conseguenze delle condotte devono essere protratte;
- Tale conflitto deve durare almeno sei mesi;
- Le condotte perpetrate devono consistere in: attacchi ai contatti umani, isolamento sistematico, demansionamento o privazione di qualunque incarico, attacchi contro la reputazione della persona, violenza o minacce di violenza, sia fisica che sessuale;
- La vittima dello straining si deve trovare in una situazione di costante inferiorità;
- La vicenda deve aver raggiunto almeno la II fase del Modello individuato da Ege (Fase 1: azione ostile; Fase 2: conseguenza lavorativa percepita come permanente; Fase 3: conseguenze psicofisiche; Fase 4: uscita dal lavoro);
- Deve sussistere un animus persecutorio.
Questo fenomeno prevede pertanto degli episodi umilianti nei confronti di un dipendente. Le conseguenze sono similari a quelle causate dal mobbing (disturbi sia fisici sia psichici). Elemento caratterizzante dello straining è tuttavia l’assenza di una ripetitività programmata delle condotte. È pertanto diverso anche l’animus dell’agente, rappresentato dalla volontarietà di cagionare un turbamento solo momentaneo alla vittima.
La Giurisprudenza.
Il danno da straining è stato riconosciuto per la prima volta in via giurisprudenziale nel 2005, da parte del Tribunale di Bergamo durante una causa per stress forzato. Il Giudice di merito ha asserito che “Il cosiddetto mobbing consiste in una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente e in costante progresso in cui una o più persone vengono fatte oggetto di azioni ad alto contenuto persecutorio da parte di uno o più aggressori in posizione superiore, inferiore o di parità, con lo scopo di causare alla vittima danni di vario tipo o gravita. Tale fenomeno si distingue dal cd. straining che è costituto da una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno un’azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre a essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante. La vittima è rispetto alla persona che attua lo straining in persistente inferiorità. Pertanto, mentre il mobbing si caratterizza per una serie di condotte ostili e frequenti nel tempo, per lo straining è sufficiente una singola azione con effetti duraturi nel tempo (come nel caso del demansionamento)”
In tal caso si era estrinsecata una condotta autonoma e isolata, idonea però a creare una situazione di stress psicologico in seno al lavoratore.
La Corte di Cassazione si è espressa a più riprese sul fenomeno dello straining, evidenziandone la sua natura dannosa, ma episodica o saltuaria.
[1] Così Harald Ege, Oltre il Mobbing. Straining, Stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro, ed. Franco Angeli, Milano, 2005
“Un’ingiustizia fatta a uno è una minaccia a tutti”
– Montesquieu